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Liberté égalité sexualité

di I.S.Fenu Art. 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Il primo comma dell’articolo 3 della Costituzione è così chiaro, lineare, netto e inequivocabile che, se venisse applicato alla lettera, l’Italia sarebbe veramente la patria del diritto, il Bengodi dell’eguaglianza e una terra di civiltà, non solo giuridica. Sarà per questo che uno dei dettati più belli della nostra Carta fondamentale è anche il più disatteso, quello più irriso e contraddetto nella prassi quotidiana? È, di certo, per tutti questi motivi, e per tanti altri ancora, che Nicola Mette l’ha scelto come premessa e come base teorica per la sua performance Liberté, Egalité, Sexualité: quasi un rito propiziatorio teso a materializzare una rivoluzione ancora di là da venire. Quattordici spose biancovestite e uno sposo (l’artista) hanno percorso i luoghi simbolo della Capitale che celebrava il suo 2.765 è genetliaco suscitando meraviglia, perplessità e disappunto, auspice il forte impatto visivo, verrebbe da dire pittorico, di un neo-barocco ridondante e trasgressivo. Il corteo, multietnico e composito, con gay, etero, bisex, lesbiche e trans, rivendicava diritti e affermava la necessità, esplicitata dal titolo, di una trasformazione libertaria e liberale di una società imbalsamata da un potere politico ottuso e sordo, fuori dal tempo e dalla storia, prono verso i diktat di un cattolicesimo non meno involuto e pervasivo. Stazione Termini, Piazza del Popolo, Via del Corso, Ara Pacis, Via Condotti, Piazza di Spagna e Trinità dei Monti, Montecitorio, Altare della Patria e Colosseo, Campidoglio, Ghetto, Campo dei Fiori, Piazza Navona e, infine, Piazza San Pietro in Vaticano. Qui, un solerte funzionario italo-papalino e le forze dell’ordine, come da copione, hanno bloccato il corteo: non capivano il senso dell’iniziativa, lo sciamare di quell’algido harem di quattordici spose e uno sposo. Devono averlo scambiato per un gay pride fuori stagione o per un’irriverente e blasfema allusione al “burlesque” berlusconiano, quest’ultimo ben più tollerato nelle sacre stanze vaticane. Non ne hanno colto, pertanto, l’approccio situazionista, spiazzante e duale, tra denuncia politica e valenza estetica. Un lirismo sottile e un’invereconda irriverenza hanno indotto, infatti, l’artista a profanare il virginale abito bianco della sposa e i suoi molteplici significati: epifania di purezza, di passaggio a una nuova vita e di distacco dalla famiglia d’origine, simbolo di una conquistata autonomia, almeno sulla carta, e di un confronto paritario, sempre sulla carta, con l’altro sesso, seppure in un ruolo più defilato che talvota si esplicita in una nuova e più coercitiva sottomissione. Sull’iconografia e sulla mitografia della sposa si basa, del resto, anche la morale cristiana. La stessa Vergine Maria, madre figlia e Sponsa Christi, ne diviene l’emblema e la certificazione, tanto che la stessa Chiesa si identifica in lei. Donna, Madonna, Chiesa: temi spinosi, soprattutto se a rappresentarli è una così variegata umanità che travalica la codificata e canonica divisione tra generi. Ma sarebbe riduttivo circoscrivere l’intervento performativo nell’alveo della mera denuncia sociale e non leggerne, anche, l’aspetto prettamente estetico, lasciandosi sfuggire la rilettura di un’opera fondamentale per l’arte contemporanea come La Mariée mise é nu par ses cèlibataires, mème di Marchel Duchamp: per Nicola Mette Le spose messe in strada dal loro (improbabile) marito, anche. Dunque, un approccio dissacratorio sia nei confronti di un simbolo fondante come quello della sposa e di tutto ciò che intorno ad essa gravita a livello sociale e religioso, sia rispetto allo stesso mondo dell’arte, mis é nu da un’altrettanta vena ironica, leggera e urticante come il tocco di una medusa. E, tuttavia, in questa pluralità di letture possibili, non può sfuggire anche una dimensione nostalgica, un desiderio inevaso e intrinseco al mito della sposa, un mito capace di travalicare identità sessuali e rifiuti ideologicamente connotati e, forse, proprio per tali aspirazioni recondite, pudicamente nascoste quanto arrogantemente negate, lo sciame bianco che ha attraversato le vie di Roma in una bella giornata di primavera, si è ammantato di un’intensa carica poetica oltre le intenzioni dell’artista e meravigliosamente evocata dai versi di Fabrizio De André nella canzone Khorakhan�: ora alzatevi spose bambine? che è venuto il tempo di andare? con le vene celesti dei polsi? anche oggi si va a caritare A caritare un’agognata laicità e il diritto a un’affettività condivisa e riconosciuta. di M.Sgroi Nella terrificante produzione iconologica dell’Altro siamo entrati nella Torre di Babele del terzo millennio; l’oggetto delle pulsioni seduttive finisce per essere una estensione delle nostre proiezioni del desiderio e l’indeterminatezza dell’Altro diviene, né più, né meno, di una creazione per differenza di noi stessi. E’ l’immagine dell’amore si riduce ad una proiezione isterica di noi stessi rifondando, del tutto, il paradigma sessuale del mondo virtuale. La pulsione verso l’altro non è più legata al gioco della seduzione e della conquista, laddove la vera sfida consiste nel conquistare ed essere conquistati, si tratta, piuttosto, di produrre l’altro come utopia realizzata, uomo/donna ideale metafora assolutistica del desiderio che abbiamo di noi stessi. E, così, la differenza sessuale finisce per perdersi su questa linea di demarcazione: quella che separa l’amore romantico dall’amore narcisistico. La performance di Nicola Mette parte da questa constatazione: proiettiamo sull’altro il desiderio isterico e narcisistico di noi stessi; poco importa se la pulsione dell’eros sia eterosessuale od omosessuale, quello che conta che il centro dei nostri desideri risponda ai canoni che noi stessi gli abbiamo attribuito. L’oggetto dell’amore di Nicola Mette non è mai soddisfacente in maniera assoluta; attraverso una sequenza di matrimoni con uomini e donne, con gay, lesbiche, bsx, trans ma, anche, eterosessuali, uomini e donne, egli esprime l’assoluto distacco verso i paradigmi relazionali che hanno caratterizzato la storia del sapiens sapiens quasi che noi, moderni cyborg, avessimo riscritto totalmente i parametri afettivi dell’amore. E, d’altra parte, nel mondo ipercomplesso del post 2000, le stesse relazioni con l’altro sono assolutamente diversificate sulla superficie del pianeta e, nella sua sequela ininterrotta di rapporti con alterità del tutto diverse, Nicola Mette trasforma la diversità in fascinazione e la fascinazione in diversità quasi come se l’estasi del postumano sia solo una derivazione di feedback della nuova forma dell’immaginario corporeo. Al contrario di certe derive nichiliste, però, l’artista sardo è lontano dall’attribuire a questi meccanismi di attrazione verso l’indeterminatezza sessuale, una accezione negativa; per Mette le infinite possibilità dell’amore sono sinonimo di libertà, tanto è vero che l’intera operazione si intitola “Liberté, Egalité, Sexualité”. E’ la qualità dell’amore, allora, il concetto centrale della operazione artistica, una sequenza di performance che coinvolge, come un viaggio nella contemporanea forma relazionale, l’intera città. Nulla è in assoluto certo e definito, ciò che conta è proprio la diversa capacità di relazionarsi con l’altro e di quanto, noi stessi, investiamo nella ricerca dell’amore. La stessa danza sul limite del desiderio che portava Deckard nel romanzo di Philip Dick, “Do Androids Dream of Electric Sheep” ad innamorarsi della forma androide di Rachel; essere sintetico, si, ma non per questo meno degno d’amore.